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Cristoforo Messi Sbugo ed il suo multiforme talento

(Ferrara, post 1482 – ivi, 10 novembre 1548)
di Patrizia Cremonini

* Breve sintesi che attinge ad una ricerca storico-archivistica parzialmente esposta dalla scrivente in alcune pubbliche conferenze: presso la sede della Deputazione di Storia Patria per le Provincie Modenesi, il 1° dicembre 2012; nell'ambito del I ciclo di conferenze “Carte rivelatrici 2015” promosso dall'Archivio di Stato di Modena e dal Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali-Università di Modena e Reggio Emilia, il 26 novembre 2015; nel convegno “Il “gusto” della ricerca. Convegno di studio in onore di Piero Camporesi in occasione del ventennale dalla sua scomparsa” promosso dal Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica-Università di Bologna e dal Centro Studi Camporesi, il 20 ottobre 2017.

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Archivio di Stato di Modena, Archivio estense, Camera, Amministrazione dei principi, 58;
Compendio generale del Provveditore Cristoforo di Messi Sbugo, 1° dicembre 1547.



Officiale alla corte estense nella prima metà del '500, dapprima al servizio di Alfonso I d'Este (duca dal 1505 al 1534), poi del figlio Ercole II (duca dal 1534 al 1559) sotto il cui governo raggiunse i vertici del funzionariato, Cristoforo Messi Sbugo deve fama e notorietà al suo trattato di gastronomia e scalcheria valorizzato nel presente sito web. Inserendosi nel filone della trattatistica del tempo, pienamente consapevole del suo valore come cuoco, gastronomo e regista ideatore di sontuosi banchetti ducali, egli volle condensare il suo operato in una summa, lo scritto Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale di Christoforo di Messi Sbugo. Lo completò dopo il 14 febbraio 1548, poco prima di morire, e lo dedicò a Ippolito II d'Este, fratello del duca Ercole II, cui, come precisò nell'incipit, suo malgrado, in assenza di baiocchi (bontà di chi li raccolse), non poté allestire un degno banchetto in occasione dell'elevazione alla carica cardinalizia. Ma i veri ultimi destinatari erano i “colleghi” che gli sarebbero succeduti ed i posteri cui voleva lasciare un modello percorribile, un prontuario fissato in regole e norme di riferimento, nonché un'orgogliosa attestazione di come ed in quali specifiche occasioni, tra il 1524 ed il 1548, era riuscito a realizzare la complessa struttura del banchetto-spettacolo, vera e propria forma d'arte già attestata tra la metà del '400 ed i primi del '500 nelle principali corti italiane per spettacolizzare ed esaltare la ricchezza e il prestigio dei principi.

Il trattato di Messi Sbugo illustra dettagliatamente come di volta in volta egli avesse rappresentato la magnificenza estense, creando cioè una sorta di “opera totale” in cui i commensali venivano immersi nella meraviglia, nella grazia e nell'eleganza, ma anche sorprendendoli con l'inserimento di elementi dissonanti, sollecitandoli continuamente con piaceri gastronomici e visivi, con esecuzioni vocali, danze, concerti strumentali: un sogno dei sensi fattosi realtà, quasi un'anticipazione della poetica seicentesca dei piaceri. Probabilmente Cristoforo aveva anche progettato la pubblicazione del suo trattato, che avvenne appena l'anno dopo la sua morte, nel 1549 a Ferrara, a stampa di un gruppo editoriale soprattutto dedito alla pubblicazione di opere musicali. Si trattava di Giovanni Buglhat (Boglat / Boglhat), sacerdote francese di Clermont giunto nella capitale estense nel 1528 al seguito di Renata figlia di Luigi XII re di Francia (ne fu elemosiniere) divenuta moglie del principe Ercole (II) e del valente incisore Antonio Hucher, forse anch'esso d'origine francese, attestato a Ferrara circa dal 1530. Il Buglhat conseguì posizione ragguardevole soprattutto con l'elevazione a duca di Ercole II. Merita segnalare che, per festeggiare l'arrivo a Ferrara della regale sposa francese, Cristoforo ebbe incarico dallo stesso principe consorte di dirigere ed organizzare una cena in tempo di carnevale, il 24 gennaio 1529. Per l'occasione lo scalco generale Sbugo riuscì ad architettare e coordinare un raffinatissimo, memorabile, paradigmatico, banchetto di carne et pesce che Ercole (II) poté offrire alla giovane moglie, al duca padre Alfonso I, alla zia Isabella marchesa di Mantova, al fratello Ippolito e a Francesco d'Este, con la partecipazione di 104 persone tra cortigiani e ambasciatori.

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Archivio di Stato di Modena, Archivio estense, Camera, Amministrazione dei principi, 58;
Compendio generale del Provveditore Cristoforo di Messi Sbugo, 1° dicembre 1547.


Alla prima stampa ferrarese del trattato nel 1549, seguì rapidamente uno straordinario successo editoriale. Già dal 1552 e fino al 1626 vari tipografi, editori e librai di Venezia, cambiato il titolo in Libro novo nel qual s'insegna à far d'ogni sorte di vivande secondo la diversità de' tempi...e compattato il doppio cognome in un'unica forma (al corretto “Messi Sbugo” le stampe veneziane preferirono il lemma “Messisbugo”, nuovo cognome che costituirà la fonte equivoca su cui si baseranno varie ipotesi circa il luogo d'origine di Cristoforo, ad esempio credendolo fiammingo o tirolese), ne fecero un best seller con almeno 17 ristampe, ben 12 già nella seconda metà del '500. Questa rilevante produzione editoriale è attestata dalle numerose copie oggi reperibili non solo in varie parti d'Italia (oltre Ferrara, a Bagnacavallo, Bagnoregio, Bari, Bergamo, Bologna, Brescia, Enna, Faenza, Firenze, Imola, Livorno, Lucca, Mantova, Milano, Napoli, Narni, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Reggio Emilia, Roma, San Severino Marche, Savignano, Siena, Venezia, Vercelli, Vicenza, Viterbo), ma anche in Francia, Germania, Inghilterra, Slovenia, Spagna, Svizzera,  e persino in Canada, negli Stati Uniti d'America e in Russia.
Se già i contemporanei ed oltre, grazie alla vasta diffusione editoriale veneziana, apprezzarono il suo talento nell'arte culinaria e nell'arte di allestire scenografici banchetti per principi, gli odierni storici della cucina e della gastronomia, esaminando le non meno di trecento e trenta ricette di vivande da lui elaborate con diligenza, industria, esperienza e in effetto fatte descritte nel trattato, riconoscono al Messi Sbugo una tale creatività e modernità da collocarlo all'origine della grande tradizione culinaria italiana, al fianco di Bartolomeo Scappi, l'altro ancor più eminente cuoco rinascimentale. Stando alle fonti d'archivio, oltre a ideare sofisticati ed innovativi piatti culinari e coordinare in ogni aspetto straordinarie macchine conviviali, egli in realtà professionalmente ricoprì sempre il ruolo di officiale della Spenderia, l'ufficio dedito agli acquisti necessari per il mantenimento della corte ducale estense. Cristoforo iniziò la carriera nel 1515 come sottospenditore, portando il semplice cognome di Sbugo con riferimento alla famiglia Sbughi, antica famiglia ferrarese attestata dal '300 e ramo dell'illustre ceppo dei Paganelli. All'epoca percepiva 8 lire di paga per 9 paghe (in totale 72 lire l'anno), inoltre giornalmente riceveva pan cotto per una bocca ed 1 libbra e 4 once rispettivamente sia di carne di manzo che di pesce, ma niente vitello. Per il riscaldamento poteva disporre di 5 zoche di legna. Ben più ragguardevole il suo status sociale ed economico quando raggiunse il vertice della carriera divenendo provveditore generale della Spenderia. È quanto si apprende da un conto consuntivo da lui stesso redatto il 1° dicembre 1547 ove, affiancando l'arte ragionieristica alle forme canoniche dell'arte come poesia, incisione, disegno ed acquerello, arriva a creare una singolarissima, colta e raffinata nuova forma artistica, un'opera che trasfigura il registro contabile e ne fa il suo testamento professionale di officiale della Spenderia a chiusura e commiato dal suo offitio poco prima della morte (14 ottobre 1548). All'epoca, al culmine del suo percorso lavorativo, la paga era arrivata a 12 lire per 12 paghe (in totale 144 lire l'anno). Giornalmente per 3 bocche riceveva frumento e vino, 3 libbre rispettivamente sia di carne di manzo che di vitello, 6 libbre di pesce d'acqua dolce. Ogni settimana 2 libbre d'olio, 4 libbre di sale, 2 libbre di lardo, 2 libbre di formaggio, 2 granade e 2 granadelli. Nelle settimane invernali ed estive 1 candela de sevo (grasso di bue). Ogni mese 266 sarzane. Infine 4 torze per accompagnare nel mese d'inverno e un cavallo alla stalla.
Pervenire a tanto favore aveva richiesto un lungo iter. Tra il 1521 ed il 1530 risulta aver svolto anche il compito di spenditore “cavalcante”, ossia l'economo che, fornito di contanti in monete di varie valute, doveva accompagnare duchi, principi e dignitari in viaggi di piacere e missioni politiche provvedendo ad ogni lor bisogno (cavalcature, traghetti, pasti, alloggi, servitù, doni ad autorità...) redigendo poi, al rientro, dettagliati rendiconti delle somme spese da sottoporre al controllo della Camera ducale. Nel 1529, tra ottobre e novembre, aveva accompagnato il duca Alfonso I d'Este per andare a Reggio e a Modena incontro a Carlo V d'Asburgo. Questi, siglata da poco la pace di Cambrai (5 agosto 1529), era diretto a Bologna per essere incoronato imperatore e con l'autorità che stava per conseguire avrebbe potuto concedere al duca di rientrare in possesso di Modena e Reggio, perdute nel 1511.
Assurto alla massima dignità regia, il 24 febbraio 1530 nella città bolognese, il sovrano poi aderì alla richiesta dell'Estense emanando nello stesso anno il lodo di Colonia. Alcuni anni dopo, il 20 gennaio 1533 ancora a Bologna, l'imperatore fu benefico anche verso Cristoforo elargendogli un importantissimo riconoscimento: l'investitura a conte palatino.
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Archivio di Stato di Modena, Archivio estense, Camera, Amministrazione dei principi, 58;
Compendio generale del Provveditore Cristoforo di Messi Sbugo, 1° dicembre 1547.



Il delicato ufficio svolto nella Spenderia poteva incorrere anche in sgradevoli insidie, come l'accusa di truffa verso la Camera. Accadde anche a Cristoforo Sbugo nel 1536. All'insinuazione egli rispose tramite missiva con profondo sdegno e veemenza (...io non son manchato dove ho potuto a l'utile et honore del signore come è il debito mio e che sempre ho facto … dove ho hauta tanta, tanta patientia che pocha più ne hebbe Christo o Job o San Francesco ne ha. Sia, nel nome de centomiglia diavoli, ho faticato, e con la mente, e con le forze, dì e note …).

Attorno al 1539-1540 raggiunse l'apice professionale nella Spenderia. Divenne Provveditore generale secondo solo al Mastro di Casa, il funzionario più alto della corte. È quanto si può desumere dal fatto che fu lui a compilare ai primi del 1540 il conto consuntivo relativo alle spese sostenute per il mantenimento dell'intera corte nell'anno precedente. Dovette trattarsi di un periodo particolarmente importante, per lui denso di rilevanti cambiamenti. Circa in tale lasso di tempo infatti dovette legarsi ad una delle famiglie nobili più antiche di Ferrara, già attestata tra i secoli X e XII, i Giocoli: lo stemma con la stella ad 8 punte dei Giocoli presente nel sigillo apposto sulle sue lettere a partire dal 1541 attesta essere già stato celebrato all'epoca il matrimonio con Agnese figlia di Giovanni Giocoli. Attorno al 1540, inoltre, Cristoforo iniziò a firmarsi con il doppio cognome con cui oggi lo conosciamo, da tale data le carte recano difatti le forme Sbugo fiu de Messi, oppure di Messi detto Sbugo ed infine più semplicemente di Messi Sbugo.

Qual era la famiglia originaria di Cristoforo, gli Sbughi o i Messi? Ebbene, come in un coup de theatre che certo anch'egli avrebbe apprezzato, alcune carte d'archivio ed il suo sigillo apposto sulle missive hanno permesso di sciogliere la vicenda. Suo padre naturale in realtà si chiamava Paolo Albanese, un condottiero di ventura d'origine greco-albanese mandato da Ludovico il Moro in soccorso militare al duca Ercole I d'Este in occasione della “Guerra di Ferrara” (1482-1484). Con il ruolo di connestabile, nel maggio del 1482 l'Albanese venne assegnato dal duca estense alla difesa della fortezza di Ficarolo, importantissimo sito strategico sul Po'. Assediato dai veneziani, dopo una strenua drammatica resistenza durata 40 giorni, in cui il futuro padre naturale di Cristoforo sembra essersi distinto, infine il castello capitolò. Già sposato con la figlia del suo capo (Giorgio Brandolino detto poi Giorgio da Gallese, luogotenente del più noto condottiero Tiberto Brandolini da Bagnacavallo), a Ferrara l'Albanese si unì, senza sposarla, ad una ancor anonima Sbughi. Il condottiero rimase nel Ferrarese almeno fino al 1494 e con la Sbughi mise al mondo due figli, una femmina, Bartolomea, ed un maschio cui fu imposto in nome del nonno paterno, Cristoforo. Per lungo tempo, dunque, il nostro, destinato ad ottenere fama imperitura come pilastro della grande cucina rinascimentale italiana, dovette soffrire la condizione di figlio bastardo, portando solo il cognome materno, almeno fino agli anni '40 del '500. Tuttavia ebbe il sostegno dello zio materno, Antonio Sbughi, abitante nella contrada S. Policino, benefico peraltro anche verso la famiglia Albanese. Lo zio Sbughi, disponendo di un certo capitale, infatti fu prestatore di denari nel 1494 al gruppo famigliare degli Albanese, cittadini ferraresi residenti nella contrada di S. Maria del Vado: dediti all'arte della guerra, i condottieri erano soliti versare in condizioni di precarietà dovendo sempre dipendere dalla possibilità di ottenere condotte. Peraltro le due famiglie dovettero arrivare legarsi strettamente visto che lo zio Sbughi nel testamento che lasciò il 12 novembre 1511 oltre a favorire i suddetti nipoti Bartolomea e Cristoforo figli di Paolo Albanese, si prodigò anche per un terzo nipote, Filippo, figlio di un altro Albanese, Nicolò, fratello maggiore del padre di Cristoforo. Fu probabilmente lo zio Antonio, che aveva intrapreso la carriera amministrativa all'interno della corte ducale, ad introdurre il nostro nel 1512 alla carriera di officiale. Ma non va neppure trascurata l'eventualità che l'inserimento nella corte estense di Cristoforo fosse connesso anche a qualche merito legato all'impresa guerresca del padre Paolo a Ficarolo. Tutto il resto, la stima conseguita presso Ercole d'Este (principe e duca), le sue ascese professionale, sociale ed economica, Cristoforo (che mai fa accenno al padre naturale) se lo procurò da solo con il suo ingegno, il suo talento ed il suo lavoro, come sembra alludere il motto che egli scelse per la sua impresa: omnia mea mecum porto.

Attorno al 1540, ormai in età matura, egli venne riconosciuto come figlio da un tal Messi. Il riferimento con ogni probabilità va ad un gruppo famigliare originario di Vicenza composto da celebri musicisti attivi alla corte estense. Tra questi spiccava per virtuosismo nelle esecuzioni con il cornetto il “divino” Antonio noto appunto come “Antonio de Messi detto Cornetto” o più semplicemente “Antonio dal Cornetto”, attestato a Ferrara tra il 1531 e fin circa il 1548-1550. Il periodo collima con quello in cui Cristoforo realizzava i sontuosi conviti (il trattato descrive i banchetti allestiti tra il 1524 ed il 1548) abbinando ad ogni fase simposiaca specifici, colti, accompagnamenti musicali, descritti nel trattato con tale perizia da dimostrare la sua notevole competenza musicale e inducendo gli odierni musicologi ad utilizzare la sua opera come fonte privilegiata per ricostruire i gusti musicali del tempo a Ferrara.

Dopo che sul finire del 1547 aveva compilato il suo ultimo compendio nella peculiare forma già descritta, negli ultimi mesi di vita del 1548, consapevole di essere giunto al termine, con atti di pieno controllo mise ordine a varie cose ancora in sospeso, prendendo commiato da tutti e curando il ricordo di sé e del proprio operato presso i posteri. Il 14 febbraio, in periodo di carnevale, organizzò in casa sua nel quartiere di Sant'Antonio in Polesine un festino notturno, invitando il duca Ercole II, il principe Alfonso (II) e altri 27 dignitari. Fece iniziare la cena con la recita di una commedia del bolognese M. Girolamo Parabosco, piacevole, ridicula e con musica, il cui titolo, La notte, richiamava la fase estrema in cui versava Cristoforo, mentre il banchetto aveva l'evidente senso di offrire al duca ed alla corte un ultimo saluto ricorrendo alla stessa forma artistico-scenografica con cui al meglio aveva servito gli Estensi. Simbolicamente e teatralmente pose la descrizione di questo festino proprio in chiusura del suo trattato, summa delle sue esperienze di cuoco, gastronomo e scalco. Si può così dedurre che l'opera Banchetti dovette esser terminata dopo il festino, ossia dopo il 14 febbraio 1548, assumendo anch'essa il senso ultimo di testamento morale. Il 15 marzo giunse ad una transazione con gli eredi dello speziale Gaspare Grana ponendo così fine ad una lite patrimoniale iniziata nel 1531. Il 16 e 21 marzo fece redigere due atti di legittimazione di due suoi figli avuti fuori dal matrimonio (non ebbe figli dall'unione con la Giocoli), riparando così un torto con i suoi diretti discendenti e prendendo anche le distanze dal differente comportamento che il padre condottiero gli aveva riservato. Infine il 14 ottobre fece testamento, distinguendo tra i beni che aveva personalmente accumulato e quelli pervenutigli per eredità. Alla moglie Agnese andarono i primi: una casa a Ferrara, una a Francolino con le terre adiacenti, tutti i mobili di casa, eccetto i tamarazi e altre cose de la corte che andavano restituite all'ufficio, il cochio fornito, gli abiti, i denari, la soa cadena d'oro e gli argenti sel ge ne serano, ed anche la metà di una riserva di vini, certamente pregevole. Lasciò contanti e una casa avuta in eredità paterna (probabilmente dal Messi che l'aveva riconosciuto come figlio) alle sue tre sorelle (Eleonora, Antonia e Francesca, forse acquisite ed appartenenti al gruppo famigliare Messi) con l'accorgimento che fosse erede universale Francesca, maritata con Giacomo della Valle e madre di due o tre figli maschi. Presumibilmente, poiché la numerosa prole garantiva la discendenza di sangue, riteneva che Francesca avesse più diritti di ottenere l'eredità paterna (Messi) per poi trasmetterla ai figli, nel rispetto della diretta linearità di sangue. Alle altre due sorelle andò l'usufrutto di parti della casa potendo abitarvi finché fossero state in vita. Francesca ottenne anche l'altra metà della riserva vinaria.      

Il testamento fissava anche le modalità del funerale, con un rigore spirituale che sembra in linea coi tempi riformistici e controriformistici. Dopo la veglia di due francescani al suo corpo rivestito di un semplice saio francescano, il corteo funebre doveva tenersi alle 3 di notte, senza pompa né campane, alla luce dei soli lumi di altri sei francescani, prima sostenuti però da una cena honorevole (e qui non può non sfuggire un malinconico sorriso pensando al valore che egli aveva sempre dato al cibo e quali e quanti erano stati i suoi banchetti, di cui in questa estrema occasione volle lasciare ancora un ricordo a quanti avrebbero vegliato il suo corpo: per Cristoforo il modo più consono per accomiatarsi ancora). Alla cena dovevano partecipare, oltre che i frati della veglia, anche un cugino ed il cappellano di San Giorgio. Ad ognuno dei religiosi doveva esser consegnato un cero, un dupiero biancho de libbre tre, per l'illuminazione durante il corteo. Le spese della cena e delle esequie spettavano alla moglie Agnese (vale a dire a spese dello stesso Cristoforo, se si considera che alla Giocoli sarebbe andata l'eredità di quanto aveva guadagnato il marito nel corso della sua vita). Luogo scelto per la sepoltura era la chiesa del monastero di Sant'Antonio in Polesine, nell'omonimo quartiere di Sant' Antonio in cui Cristoforo aveva casa e dove si spense il 10 novembre 1548.